Sono 40 anni che fraintendiamo i CCCP (2024)

Nel 1984 Bettino Craxi è al governo da un anno. C'è chi dice che Craxi ha definito la propria immagine a partire dallo stile e dal modo di posare davanti alle telecamere dell'ex cancelliere tedesco Willy Brandt. Nella provincia di Reggio Emilia, invece, abitano due punk, Giovanni Lindo Ferretti, 30 anni, e Massimo Zamboni, 27 anni. Anche Ferretti e Zamboni stanno mettendo a punto un progetto: poetico, estetico e musicale. Oltre a Ferretti e Zamboni ci sono due performer: Annarella e Fatur. A Reggio Emilia, dove PCI e PSI amministrano la città dal dopoguerra, regna un monocolore comunista guidato dal sindaco Ugo Benassi. La storia di Ferretti e Zamboni è nota. Si sono incontrati per la prima volta non a Reggio Emilia, ma in Germania, a Berlino ovest, nel 1981. Frequentano Kreuzberg, il quartiere dei punk, degli “autonomen” e degli immigrati turchi. A Berlino hanno deciso di formare insieme una band e di chiamarla CCCP-Fedeli alla linea. Le figure di Ferretti e Zamboni non lasciano indifferenti. Entrambi sono magri, sottili, ma se Zamboni, che indossa un paio di occhiali da vista, sembra uno studente un po' deviato, Ferretti è invece una specie di Nosferatu.

Nel 1984 pubblicano il loro primo singolo. Il titolo è Ortodossia. Due brani: Jurij spara e Islam punk. Quel titolo secco, Ortodossia, duro, inflessibile, massimalista, non negoziabile, senza possibilità di replica, è tutto il contrario di quel che va proponendo in quegli stessi anni un filosofo torinese, Gianni Vattimo, con il suo invito al “pensiero debole”. Ortodossia vale come la costruzione di un muro in calcestruzzo; è il pronunciamento di un no: al relativismo, allo scetticismo, allo statuto della verità come veniva riformulato nel postmodernismo allora in voga. In copertina tre soldati della Repubblica Democratica Tedesca si stagliano su un fondo rosso e marciano al passo dell'oca. Ortodossia crea qualcosa che prima non esisteva. È la nascita di una poetica originale. La rozzezza abrasiva, il furore e il nichilismo del punk si sposano all'immaginario emiliano-sovietico. Gli uggiosi adolescenti di provincia, tutti borchie, creste, cappotti spigati, creeper shoes, incarnati cadaverici e capelli cotonati, si inebriano di fronte alla rievocazione dell'universo comunista oltrecortina, con le sue architetture monumentali, le sue minacciose parate del primo maggio sulla piazza Rossa, i cieli di piombo che incombono sulle capitali del patto di Varsavia, la sua burocrazia, i suoi apparati polizieschi, il mistero dei volti marziali della sua nomenclatura. La grandezza poetica dei CCCP è nella creazione di questo diorama, di questo teatro mentale, al quale si aggiungono sapori e visioni più locali, dimenticati nel fondo di un vecchio armadio, lì dove erano stati ricacciati durante gli anni Settanta dell'extraparlamentarismo e della controcultura: è il mondo del comunismo di Togliatti e delle sue relazioni esotiche con il blocco orientale, fatto di riunioni del Cominform, viaggi, missioni e scambi di ospitalità con paesi remoti come la Bulgaria e la Romania.

Qualche giorno fa lo scrittore Christian Raimo ha scritto un post sul suo profilo Facebook, a proposito della mostra appena inaugurata a Reggio Emilia - Felicitazioni! CCCP-Fedeli alla linea 1984-2004 - che celebra i quarant'anni di storia dei CCCP:

“l revival dei CCCP, la celebrazione, la mostra, la loro reunion, sembrano succhiare davvero ogni goccia di nostalgia, di immaginario giovanile, di rabbia generazionale, di memoria del fuoco, mentre a Bologna (in tutta l'Emilia) non esiste quasi più nulla che si possa definire uno spazio antagonista, figuriamoci punk, altro che Prima pagare poi ricordare, se non si occupa i soldi andrebbero messi in un mega fondocassa per gli affitti degli studenti, alle volte sembra la reunion di Elio e le storie tese, con Lindo Ferretti che dice Io sto con Israele mentre un suo ologramma canta Punk Islam”.

Quanto Raimo ha scritto mi ha punto sul vivo. Un'immagine mi ha fatto drizzare le orecchie, anche per la specie di ricatto emotivo che innesca: “memoria del fuoco”. Sono andato a cercare su Internet. Corrisponde al titolo di un romanzo di Eduardo Galeano. Non so se Raimo si riferisse a quel libro. Quando ho letto lo status, però, ho pensato che alludesse a un nocciolo intimo e immemorabile della vita di ognuno. Qualcosa di simile, ma non proprio identico, al fuoco che passa di padre in figlio, nel famoso finale di La strada di McCarthy. Se hai perso quel fuoco, sei finito. Ho immaginato che con “memoria del fuoco” volesse indicare qualcosa che è -o è stato- dentro alcuni di noi, dal quale deriva la capacità di sentire e quindi d'indignarsi e reagire, possibilmente in modo “politico”, cioè organizzato. E secondo Raimo questa capacità di sentire e reagire in modo “politico” si è affievolita fino a spegnersi (non gli do torto, per quel che mi riguarda), salvo riaccendersi, come in Madame Bovary, solo attraverso lo stimolo di un prodotto culturale, come, appunto, lo è la grande mostra dedicata ai CCCP (anche su questo punto, in generale, non gli do torto). Comprendo, anzi “soffro”, sento quel che dice Raimo, lo vedo (anche se, in fondo, chi se ne frega del mio eventuale accordo o disaccordo con Raimo o con chicchessia); ma quello che mi preme dire riguarda il punto probabilmente meno decisivo, e cioè che i CCCP, a mio parere, poco o nulla hanno a che fare con quella “memoria del fuoco”. La questione riguarda un fraintendimento dell'esperienza e della poetica dei CCCP, che viene a galla in quasi tutti gli oltre duecento commenti che hanno fatto seguito allo status di Raimo. È un interessante caso di studio. Parliamone.

Sono 40 anni che fraintendiamo i CCCP (3)

Dopo la fine dei CSI (la band nata dopo lo scioglimento dei CCCP), ormai molti anni fa, Giovanni Lindo Ferretti ha intrapreso un percorso personale. È andato a vivere in un luogo isolato, a Cerreto Alpi, frazione del comune di Ventasso, sull'Appennino tosco-emiliano. Di tanto in tanto sono circolate delle foto di Ferretti, apparentemente pacificato e sereno, mentre si aggirava tra le viuzze in salita di vecchi borghi appenninici o mentre era affaccendato dentro una stalla accanto a un bel puledro. Ma soprattutto pare che Ferretti in quegli anni si sia riavvicinato a una forma di cattolicesimo radicale. Non “pare”, cioè, è proprio così, sembrerebbe che la vita spirituale di Ferretti sia andata in quella direzione, anche se la fede di ciascuno - per come è professata, vissuta, sabotata o rafforzata, giorno per giorno - resta comunque un fatto privato, nascosto alla vista degli altri (figuriamoci del pubblico, che osserva tutto da una cannocchiale). L'abbraccio con la religione cattolica -addirittura con Ratzinger - ha deluso e turbato un bel pezzo della platea dei CCCP, come se Ferretti si fosse macchiato di una colpa. La colpa di credere, ma soprattutto la colpa di aver tradito e ripudiato la “sinistra”. In quanto personaggio pubblico, Ferretti in passato ha rilasciato interviste, anche se con frequenza molto rarefatta.

Così è stato per moltissimi anni. Magari per intervistarlo toccava arrampicarsi fino dalle sue parti, a novecento metri di altitudine, tornante dopo tornante, e bisognava comunque concordare un appuntamento, capire prima se l'intervistato aveva tutta questa voglia di parlare o di mettersi a chiacchierare con un critico o un giornalista. E così è successo che in passato alcune sue affermazioni - per esempio sul diritto all'aborto - hanno ulteriormente irritato un bel pezzo del suo vecchio pubblico. Ultimamente, durante una delle interviste promozionali della mostra, Ferretti ha dichiarato a un quotidiano la sua amicizia - o qualcosa del genere - per Israele. Ovviamente il giornale ci ha fatto il titolo. Ho letto quel passaggio dell'intervista, ma svogliatamente, perché non m'interessava quel che pensa Ferretti del conflitto tra Israele e Palestina. Anni fa circolò pure una bizzarra foto di Ferretti in compagnia di Giorgia Meloni. Io stesso non riuscivo a capire. Non tanto che cosa ci facesse Ferretti accanto a una persona di destra - non sono così bigotto - ma che cosa avessero da dirsi uno come Giovanni Lindo Ferretti e una come Giorgia Meloni. Non riuscivo a darmi una spiegazione. Più che irritato o più che sentirmi “tradito” - ma perché mai? - ero semplicemente stupito. Applicavo ciò che un filosofo analitico, Donald Davidson, ha chiamato il principio di “carità interpretativa”. Si tratta di assumere un atteggiamento verso l'altro o verso le circostanze della vita, che è fatto di apertura all'imprevisto, di un pizzico di curiosità, basato sul semplice stupore, sull'ammutolimento, sull'attesa, sulla probabilità di esser smentiti, qualcosa di simile alla sospensione del giudizio, niente di particolarmente impegnativo, e che credo si possa fare proprio, per lo meno quando ci si trova di fronte a un artista importante, specialmente se come Ferretti non è un tribuno, non abusa del proprio ruolo, non impone la propria voce, non frequenta i talk show, non scrive editoriali, non ha un profilo Instagram o TikTok, non ingombra la scena pubblica e non si è macchiato di nessuna particolare colpa - a meno che non si consideri una grave colpa esprimere opinioni che non sono la nostra.

I CCCP vengono classificati come “sinistra”, scambiati per un gruppo di “sinistra”, collocati nello scaffale “sinistra”, magari militante, addirittura engagé o promotore di valori di sinistra. Semmai è vero l'opposto

Ma questa è solo una parte della questione. L'altra parte, più interessante e controversa, riguarda l'imbarazzante fraintendimento che riguarda i CCCP. Un misunderstanding che - se esiste, come io credo - sopravvive da quel remoto 1984. Da allora i CCCP vengono classificati come “sinistra”, scambiati per un gruppo di “sinistra”, collocati nello scaffale “sinistra”, magari militante, addirittura engagé o promotore di valori di sinistra, come lo sono stati alcuni rispettabilissimi artisti che si sono esibiti fra gli anni Ottanta e Duemila nei CSOA italiani o sul palco del primo maggio a Roma. È semmai vero l'opposto. I CCCP sono stati un esperimento ambiguo e perciò artisticamente interessante e molto seducente. Hanno stuzzicato il lato in ombra del pubblico della vecchia scena underground, il lato un po' invasato, che sotto sotto sente o sentiva il richiamo del filo spinato, delle uniformi, delle marcette, del totalitarismo sovietico, dei volti rigidi dei militari russi, delle città spoglie e severe dell'Est, ancora non contaminate dal frivolo occidente. E poi il fascino patologico di certe mazurke spettrali, che spalancavano visioni della pianura padana tutt'altro che riconciliate. Sono stimoli e suggestioni che parlano a un esserino che vive dentro di noi, in fondo molto più simile, nella sua attrazione verso l'ordine e il dogma, all'ur-fascista teorizzato da Umberto Eco che al medio progressista o al compagno che si batte per questa o l'altra causa.

È questo il tipo di viaggio, di esperienza estetica che offrivano i CCCP al proprio pubblico. Non un pericoloso programma politico, naturalmente, ma un’esperienza estetica, con un inizio e una fine, di cui, per quanto mi riguarda, ho subito il fascino da adolescente e di cui vedo ancora l'originalità e la grande potenza. Ed è a partire dal totale fraintendimento dell'esperienza estetica offerta dai CCCP che si ritiene, magari con un po' di bava alla bocca, che Ferretti abbia tradito. Al contrario, forse è il pubblico che non ha capito; non ha capito di che natura era il patto stretto con i CCCP e con il giovane Giovanni Lindo Ferretti, tutto cresta e occhio allucinato. Del resto qualche anno dopo la nascita dei CCCP, incide per la loro stessa etichetta, la Attack Punk, una band per molti aspetti epigona dei CCCP, i Disciplinatha, anche loro emiliani, che però si nutrono provocatoriamente di riferimenti estetici presi dal ventennio. I CCCP sono stati una “rivoluzione”, perché crearono qualcosa che prima non esisteva. Ma furono anche una “reazione”: al postmodernismo degli anni Ottanta, pur essendone pienamente un'espressione. E furono anche, se vogliamo, una reazione alla sinistra extraparlamentare degli anni Settanta, al cui repertorio, del tutto ignorato, preferirono quello decisamente più conservatore e autoritario dell'URSS.

I CCCP sono stati una “rivoluzione”, perché crearono qualcosa che prima non esisteva. Ma furono anche una “reazione”: al postmodernismo degli anni Ottanta, pur essendone pienamente un'espressione

Ferretti negli ultimi anni è stato un personaggio più rifiutato che conosciuto. C'è una bella intervista di un paio di anni fa, organizzata in occasione dei cinquant'anni del DAMS, di cui Ferretti è stato studente. L'intervista è tutta su YouTube. In un passaggio salta fuori un Ferretti quasi “basagliano”, quindi, forse, lontano dal Ferretti di oggi. O forse no. Chi lo sa. In ogni caso l'esperienza non è per niente rinnegata, anzi, è raccontata con gusto. È la storia di come Ferretti iniziò un impiego di cui ha parlato molte volte. Ma non mi risulta avesse mai raccontato come ebbe inizio quel periodo della sua vita. In sintesi: metà anni Settanta, Ferretti è uno studente del DAMS, ma è impaziente, è in cerca di novità e perciò si sposta spesso da Bologna. Un giorno fa l'autostop. Accosta un tale che viaggia a bordo di una grossa cilindrata. Tra i due si stabilisce un bel feeling. Parlano, parlano. Poi il tale dice a Ferretti: "Lei è una persona interessante. Ha voglia di lavorare per me?". Quindi si presenta. “Sono il responsabile del servizio psichiatrico della provincia di Reggio Emilia”. E aggiunge: "Sto andando a fare un ricovero coatto di un adolescente e l'ultima cosa che vorrei fare è portarlo in manicomio, perché è l'unica storia che conosce. Perché lei non fa l'educatore per me? Io e lei cercheremo di non ricoverarlo in manicomio. Si fidi di me". Ferretti non aveva nessuna formazione professionale specifica, ma accetta. Il dottore lo invita a rapportarsi con l'adolescente così come si è rapportato a lui durante la chiacchierata in macchina. Ferretti diventerà un operatore psichiatrico per un bel pezzo della sua vita. Il ragazzo, nel frattempo, non è entrato in manicomio.

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